Il politicamente corretto applicato al linguaggio secondo Feltri è il male del secolo, ed è giunto il momento di dire basta, di tornare a parlare come mangiamo.
Con le parole si può giocare, ma non si scherza.
Sono roba seria. Infatti, uno dei primi segni di un potere totalitario e
liberticida è proprio il controllo del linguaggio. L’imposizione della
censura di alcuni termini non è pratica che riguarda il passato, anzi, è
più attuale che mai. Più andiamo avanti e più regrediamo in questo
ambito. Più diventiamo moralistici, smarrendo tuttavia morale ed etica,
più ci concentriamo sull’uso di determinati vocaboli, facendone una
malattia. Così si è data vita alla battaglia più stupida, vana, insulsa e
folle della nostra storia: quella al dizionario. Oggi non si può più
dire “negro” al negro né si può più dire “zingaro”, “rom” o “nomade”.
Non si può dire che uno è “cieco”, semmai è un “non vedente”. Non si può
dire “sordo”, al massimo “audioleso”. Non si può dire “spazzino”, ma
solo “operatore ecologico”. Non si può dire “bidella”, ma solamente
“operatrice scolastica”. Non si può dare del terrone al terrone mentre è
corretto dare del polentone a un polentone. E guai a dire “frocio” o
“finocchio”, a meno che tu stesso non sia omosessuale, in tal caso
diventa lecito. Per non parlare della repulsione diffusa nei confronti
dei sostantivi maschili. Se aggiungi l’astina alla vocale “o”, se
declini tutto al femminile, allora sei una bella persona, altrimenti
vieni etichettato quale maschilista tossico e pure farabutto.
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