La gran parte degli
analisti prevede che la vittoria di Trump produrrà esclusivamente effetti
negativi sull’economia europea, in virtù dei dazi che il Presidente imporrà
sulle importazioni dal nostro continente e dalla Cina. La Storia economica ci
dà, però, un insegnamento di segno leggermente diverso rispetto ai vantaggi del
libero scambio, rilevando che l’industrializzazione – con la sola eccezione del
Regno Unito nella prima rivoluzione industriale nella seconda metà del
Settecento – è sempre avvenuta facendo crescere industrie nascenti nazionali
con misure di protezione doganale. Friedrich List, economista tedesco la cui
opera principale è Il sistema nazionale dell'economia politica del 1841, è
stato fra i primi a mostrare come la “protezione delle industrie nascenti”
fosse la sola strategia che la Germania avrebbe potuto adottare per non
soccombere alla concorrenza inglese, essendo l’Inghilterra partita prima nel
processo di industrializzazione.
Questa considerazione di
carattere generale può essere declinata nel contesto attuale e con riferimento
ai nessi fra politica commerciale USA e prospettive di crescita del
Mezzogiorno, sulla base di una duplice considerazione.
1) Innanzitutto, non
corrisponde pienamente al vero che solo i Repubblicani USA sono favorevoli al
protezionismo. L’IRA (Inflation reduction act) di Biden – un forte stimolo
fiscale destinato alle imprese statunintensi per la transizione “green” – è
stato, di fatto, un provvedimento ascribile al caso del protezionismo occulto.
Mentre è ormai ben nota l’esplicita adesione di Trump alla politica di
protezione dell’industria USA (“la parola più bella del dirzionario” – ha
dichiarato – “è tariffe doganali”), è forse meno nota un’analoga presa di
posizione di Kamala Harris, secondo la quale “bisogna in qualche modo
difendersi da un’ondata di concorrenza sleale”.
2) Gli USA, nella seconda
globalizzazione (dagli anni Novanta allo scoppio della guerra in Ucraina) hanno
svolto il ruolo di importatori netti di prodotti europei e successivamente
cinesi, finanziando i deficit della bilancia commerciale con continui aumenti
del debito pubblico. In virtù del privilegio esorbitante (come lo definì il
Presidente francese Giscard d'Estaing) di detenere la moneta di riserva
internazionale, gli USA sono l’unico Paese al mondo a godere del conseguente
privilegio di non avere limiti all’espansione e alla sostenibilità del loro
indebitamento sovrano. Non a caso, questo è passato dal 50% al 121% rispetto al
Pil (in linea con la tendenza all’aumento del debito pubblico mondiale) negli
ultimi trent’anni. Dagli anni Settanta, gli USA sperimentano costantemente il
doppio deficit (della bilancia commerciale – con valori che oscillano fra il
-2% e il -6% - e del bilancio pubblico, come attestato dall’US Census Bureau).
In sostanza, gli USA sono riusciti, grazie al dollaro, a vivere sistematicamente
al di sopra delle loro possibilità e la loro propensione all’eccesso di
consumo, per certi aspetti, ha prodotto più danni che benefici all’Unione
Europea e, dunque, al Mezzogiorno.
Nella storia recente, la
propensione delle famiglie statunitensi all’overconsumption (consumi resi
possibili dall’indebitamento privato) è stata la principale causa della crisi
finanziaria globale del 2008. Il Sud ne ha risentito in modo estremamente significativo,
con una caduta del Pil e un aumento della disoccupazione – negli anni che vanno
dal 2009 al 2014 - maggiore e più duratura di quella registrata nel
Centro-Nord.
Quella esperienza mostra
che esiste un rilevante effetto di propagazione delle scelte di politica
economica statunitensi sull’economia del Mezzogiorno. Si tratta di un effetto
di propagazione che passa per la reiterazione, in Europa, di politiche di contrazione
della spesa pubblica (che l’Unione ha evitato solo con il Next Generation
Europe per far fronte alla pandemia), che i Paesi centrali del continente –
Germania e Paesi “satelliti” - trovano tanto più convenienti quanto maggiore è
la propensione alle importazioni da parte degli USA.
Poiché, infatti, le
imprese localizzate nel Mezzogiorno hanno bassa propensione alle esportazioni,
la compressione della domanda interna e la connessa moderazione salariale non
ha, per loro gli effetti rilevanti che ha per le imprese del Nord (e del Centro-Europa)
e produce il solo effetto di generare aumento della disoccupazione e
rallentamento del tasso di crescita. Inoltre, in considerazione della
specializzazione produttiva del Sud fortemente orientata verso settori a basso
valore aggiunto e a basso contenuto di ricerca e sviluppo, le imprese
meridionali subiscono la concorrenza di Paesi con bassi salari e analoga
specializzazione. Anche in questo caso, si tratta di un effetto – di segno
negativo – tanto maggiore quanto minore è la protezione doganale. Si pensi, a
titolo esemplificativo, al riorientamento dei flussi turistici, negli ultimi
anni, dalle tradizionali mete pugliesi verso l’Albania, la Grecia, la Croazia.
La diffusa e spessa
acritica apologia del liberoscambio, peraltro, non considera un’ampia evidenza
empirica – per la quale si rinvia agli studi di Dani Rodrik, uno dei più
accreditati economisti statunitensi –
che dimostra che i Paesi industrializzati hanno registrato i loro massimi tassi
di crescita nella loro storia nelle fasi nelle quali erano in vigore controlli
sui movimenti di capitale (https://www.project-syndicate.org/onpoint/an-interview-with-dani-rodrik-trade-protectionism-development-redistribution-globalization-2023-10).
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