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Preso nel vortice degli affari e degli impegni ciascuno consuma la propria vita, sempre in ansia per quello che accadrà, e annoiato di ciò che ha. Chi invece dedica ogni attimo del suo tempo alla propria crescita, chi dispone ogni giornata come se fosse la vita intera, non aspetta con speranza il domani né lo teme. Seneca - Il Tempo

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Festìna lente ("Affrettati lentamente") - Svetonio

Festìna lente ("Affrettati lentamente") - Svetonio

sabato 27 gennaio 2024

I Leccesi non sono più quelli - Intervento del Direttore di Leccecronaca.it Giuseppe Puppo

Fu per pochi secondi, una decima di anni fa, ma la scena durò abbastanza tanto da rimanere impressa nella mia mente in un frame indelebile.  Ero in macchina, lato passeggero, con una mia amica che stava per ripartire, su viale De Pietro, seguendo la fila che si era mossa nel traffico, quando all’improvviso avanzò un giovane, forse un uomo, comunque un uomo giovane, che attraversò di prepotenza in mezzo alla strada proprio davanti a noi. La mia amica ovviamente frenò, lui le regalò un sorriso. A tutto tondo. Le fece pure un saluto, che non era nemmeno un gesto di scusa, ma di strafottenza ulteriore. Era vestito tutto elegante, a modo suo, pantaloni stretti e camicia gonfia, e prima di allontanarsi, rischiando di essere investito dalle auto che venivano dal senso opposto, ci fece ancora un gesto di allegro commiato, e un ultimo sorriso.

Io, da allora non ho più visto un Leccese, intendo così, tipico, con quel volto intenso, segnato e scavato in espressioni particolari, con quell’espressione perennemente in bilico fra eleganza e cafonaggine, con quegli atteggiamenti in un guazzabuglio pressoché inestricabile di menefreghismo e gentilezza, e con quel “core presciatu” che batte forte, sempre.

Giovani così, uomini così, me li ricordavo solamente fra quelli che vedevo in giro quando io ero ragazzo, mezzo secolo fa.

Un po’ li invidiavo, per le loro capacità comunicative; un po’ volevo imitarli, almeno nei successi sociali che riscuotevano, comunque, almeno ognuno nel proprio ‘giro’; un po’ avevo da imparare da loro, quanto a fascino, sicurezza, spavalderia, brillantezza, capacità comunicative.

Li ho cercati per mezzo secolo, e non li ho più trovati.

Tranne l’eccezione di cui ho appena detto.

***

 

 

Io, ringrazio l'editore Stefano Donno dell'invito a intervenire su questo blog sul tema  Lecce e dintorni, ma dirò cose terribili. Se no, che cosa mi avete invitato a fare?

***

I Leccesi non sono più quelli.

***

Una sera di settembre sono uscito a guardare le ragazze. Sono andato in centro città, per le strade della movida, a cercare  – per il gusto di vederla solamente, eh?!? Non fate troppi pettegolezzi – una che mi piacesse. Come mi piacevano in tantissime ai tempi del liceo e dell’Università. Quei corpi pieni, ma sinuosi, quelle forme marcate, quanto attraenti, ognuna con il suo stile, comunque fosse vestita, quei profumi di lontano, quei retaggi di antichi Messapi e Bizantini acquisiti, quegli occhi neri e il sapor mediorientale, in quei pomeriggi di “posa” in via Trinchese di allora.

Niente. Ne avessi trovata una che mi colpisse. Ho visto giovani donne, signore e signorine, che sembravano replicanti delle partecipanti ai programmi televisivi di Maria De Filippi; caricature di Chiara Ferragni; volti rifatti e strafatti standard, tipo Olgettine.

La metà di loro, erano vestite allo stesso modo: abitino corto, nero, o minigonna nera, e stivaletti pesanti ai piedi.

Tornato a casa, prima di andare a dormire, ho acceso la tv, per le ultime notizie dei tg della notte. Quasi subito è uscito un servizio filmato da New York, una manifestazione dalle parti di Central Park assai frequentata.

La metà delle donne, signore e signorine, riprese in quei minuti, erano vestite allo stesso modo: abitino corto, nero, o minigonna nera, e stivaletti pesanti ai piedi.

***

Poi, uomini e donne leccesi, parlano ormai tutti allo stesso modo: quell’italiano televisivo senza identità. Non scandiscono, non declamano, non sanno più porgere, alla leccese, le frasi, come avveniva fino a qualche decennio fa, si sta perdendo quella capacità di atteggiarsi, anche nel parlare, che avevano allora. Un lessico famigliare/territoriale che sta scomparendo. Resiste al massimo la zeta dolce. I termini dialettali, sostituiti dal vocabolario mutuato dall’inglese internazionale.

***

Ora, non voglio fare sociologia all’acqua di ciclamini e politica alla maionese. Di Pier Paolo Pasolini ce n’è già stato uno e rimarrà ineguagliabile. Ma voglio mettere qualche puntino sulle u, voglio testimoniare l’avvenuto compimento della lucida profezia che a metà degli anni Settanta l’impareggiabile polemista articolò in alcuni dei suoi ultimi scritti: la modificazione antropologica degli Italiani.

Certo, un fenomeno che riguarda più o meno tante zone d’ Italia, ma che in nessun’ altra è riuscito meglio – ahimè, volevo dire peggio – che a Lecce città.

La mutazione antropologica è avvenuta su un duplice versante, chiaramente visibile però da entrambi: la trasformazione sociale è una convergenza parallela a quella somatica.

E’ avvenuta una involuzione di cui hanno dettato tempi e modi la globalizzazione, la speculazione finanziaria, l’affarismo, il consumismo esasperato, lo sfruttamento delle multinazionali, la devastazione del territorio con i veleni della chimica, degli scarichi industriali, dei rifiuti tossici, con la gran quantità di malattie, fisiche e mentali, che hanno provocato,

Io, questa involuzione regressiva omologante, la vedo nella fisiognomica dei volti, nella postura dei corpi, nella standardizzazione degli atteggiamenti.

Così come la vedo allo stesso modo nelle idee livellate; nelle coscienze manipolate; nel conformismo sostanziale di adesione, sia, politicamente parlando, nel centro sinistra, sia nel centro destra, in un partito unico dominante che accomuna tutti e due gli schieramenti; in un mainstream dalle cinquanta sfumature di grigio e dalle centocinquanta sfumature di squallore.

***

Il ceto medio a Lecce non esiste più. Rimane qualche salotto buono e qualche loggia massonica, dove si pigliano le decisioni di pochi, pochissimi, a nome e per conto di tutti.

Non esistono più i valori del ceto medio positivi, quelli di decoro, arte, ingegno, originalità, che si trasmettevano per osmosi naturale – o era l’inverso? comunque questo era – a quelli popolari.

Lo scalpellino, l’artigiano della cartapesta o del ferro battuto, il rappresentante di commercio, il professore, l’esercente, hanno perso grinta, inventiva e aggressività.

La mobilità sociale, garantita dalla scuola statale, è scomparsa.

Il turismo, è stata un’occasione sostanzialmente perduta, risoltasi in speculazioni edilizie e commerciali, a vantaggio di una parte residuale della popolazione, mentre avrebbe dovuto essere un’occasione per tutti quanti, se solo ci fosse stato un modello di distribuzione originale capace di abbracciare ogni settore sociale. Quel modello poteva e doveva essere il turismo culturale, sotto l’egida delle vestigia messapiche e romane, e di personalità quali Tito Schipa e Carmelo Bene.

Ma che farci? Se nel frattempo è sopravvenuta per questo e per il resto intero la Černobyl culturale prodotta dalle televisioni, cioè dai falsi bisogni indotti e dai modelli distorti veicolati, e dalla Fukushima sociale prodotta dai telefonini, dalle cosiddette app e dai social.

Allo stesso modo, i contadini hanno dovuto trascurare il lavoro nei campi, schiacciati dalle nuove logiche commerciali imposte, quelle sopraffattrici della grande distribuzione e dell’Unione Europea; quelle dei veleni e dei rifiuti, che hanno provocato il nostro triste record che deteniamo qui nel Salento, in assoluto, della desertificazione del territorio.

Ci teniamo però come fossero preziose, mentre sono mortifere a tal punto da intaccare i feti dei nascituri nei grembi materni, le ceneri di Cerano, le particelle dell’Ilva, gli impianti di Cavallino, le trivelle nei due mari, le discariche di Burgesi e di chissà quante altre schifezze di cui nemmeno siamo a conoscenza, i gasdotti, e gli elettrodotti e gli impianti eolici in mare che stanno per arrivare.

***

Questi modelli imposti da un potere sostanzialmente immutato negli ultimi decenni chiamano indistintamente ad adeguarsi, tutti e subito.

Pena l’esclusione, l’emarginazione, l’abbandono.

 

Nelle facce dei contadini di Frigole, dove da bambino mi portavano i miei genitori, a prendere le uova fresche, l’olio buono, le verdure, io vedevo la felicità.

Quella stessa felicità che vedevo nei volti dei miei coetanei mentre giocavamo con le palline o con le figurine, addentato beati una rosetta con la mortadella.

La nostra droga erano una Canadese e un calzone, quando potevamo permetterceli.

Adesso la droga a Lecce dilaga, anche fra i ragazzini delle Scuole Medie e rovina tantissimi giovani e le loro famiglie. 

Adesso, a Lecce io vedo solo volti senza Identità, senza Appartenenza, senza Comunità, senza afflati ideali, senza generosità, senza speranza, giorno dopo giorno morire lentamente fra invidia, egoismo, ansia, paura, pressappochismo, onanistico individualismo e miseria intellettuale, in una città globalizzata, problematica, anonima, ipocrita, indifferente, disperata e disperante. 

(Intervento del Direttore di Leccecronaca.it Dott. Giuseppe Puppo)




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