La recente, amara denuncia della tennista Aryna Sabalenka non è una semplice nota a margine nella cronaca sportiva. È il sintomo lancinante di una patologia del nostro tempo: la trasformazione di ogni arena pubblica – campi da gioco inclusi – in un'aula di tribunale geopolitico, dove gli atleti diventano capri espiatori di colpe non loro. Leggere di una campionessa che, anziché concentrarsi su un dritto o un rovescio, è costretta a schermarsi da "cose terribili" scritte da anonimi inquisitori digitali, dovrebbe farci riflettere. Sabalenka, in quanto bielorussa, è diventata un bersaglio simbolico. Non importa la sua posizione individuale, le sue dichiarazioni passate o la sua evidente distanza dalla politica attiva; la sua nazionalità è diventata la sua condanna, un marchio d'infamia da esibire per una platea che confonde il tifo con la propaganda e la critica politica con l'odio personale. Il punto nevralgico della questione è questo: dove finisce la legittima richiesta di una presa di posizione morale e dove inizia la crudele e sterile caccia alle streghe? È ingenuo pensare che lo sport possa essere un'isola felice, avulsa dalle tensioni del mondo. Ma è altrettanto pericoloso trasformarlo nel prolungamento del campo di battaglia, dove a essere colpita non è una nazione o un governo, ma una persona in carne e ossa, la cui unica "colpa" è eccellere nella propria disciplina sotto una bandiera sgradita. L'odio online che sommerge figure come Sabalenka non serve la causa ucraina, non indebolisce il regime di Minsk, non sposta di un millimetro gli equilibri internazionali. Serve solo a nutrire la spirale di rabbia e a creare martiri involontari, semplificando brutalmente una realtà complessa. Chiediamo agli atleti di essere eroi sportivi, modelli di comportamento e, ora, anche fini analisti geopolitici pronti a immolarsi sull'altare dell'opinione pubblica. È un carico insostenibile. Il caso Sabalenka è uno specchio che riflette un'immagine deformata di noi stessi: una società che ha perso la capacità di distinguere l'individuo dal suo passaporto, il dissenso dalla disumanizzazione. Prima di puntare il dito e scagliare la prossima pietra digitale, dovremmo chiederci chi sia il vero avversario. Spesso, non è dall'altra parte della rete.
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