Stephen Miran è il principale
teorico del protezionismo dell’aministrazione Trump. Nell’articolo User’s guide
to resttucturing the global trading system del 2024, Miran rileva due
principali benefici per l’economia USA derivanti dall’introduzione di dazi,
ovvero: l’aumento del gettito fiscale e la re-industrializzazione. Nel
dibattito italiano, queste tesi vengono spesso considerate con sufficienza e
prevale la convinzione che le misure protezionistiche USA siano destinate a
produrre danni per la stessa economia statunitense, trattandosi di una gestione
irrazionale della politica commerciale. Si tratta di quella che viene definita
la Madam theory o teoria dei pazzi al potere, secondo la quale l’irrazionalità
del comportamento del Presidente serve a disorientare gli avversari politici
per ottenere il massimo vantaggio nelle trattative.
Conviene, per contro, prendere
Miran sul serio e verificare se le sue tesi reggono alla prova della teoria e
dei fatti.
Miran parte dall’osservazione per
la quale, essendo il dollaro valuta di riserva internazionale, la sua continua rivalutazione, è
responsabile del declino industriale americano anche come conseguenza della concorrenza di Paesi con costi di
produzione più bassi e cambio deprezzato (Cina, in primis). Si stima, a
riguardo, che la quota degli occupati sul totale della forza-lavoro nella
manifattura americana si è ridotta dal 24% del 1960 all’8% del 2025. Il peso
del Pil USA su quello mondiale si è ridotto dal 40% del 1960 al 21% del 2012.
Secondo Miran, l’introduzione di dazi può servire ad arrestare questa tendenza
e, al tempo stesso, ad attrarre capitali negli USA. I dazi, infatti, proteggono
le imprese con sede negli USA dalla concorrenza internazionale. Il ritorno al
protezionismo – si aggiunge – non avrebbe effetti inflazionistici (si cita, a
riguardo, l’esperienza positiva del biennio 2018-2019) e, con un livello
“ottimo” dei dazi (stimato al 20%) si produrrebbe anche l’aumento del gettito
fiscale. Va da sé che questo effetto si produce solo se la domanda statunitense
di prodotti importati è molto rigida e, per conseguenza, mentre un basso
livello dei dazi (dunque, politicamente poco rilevante, se i dazi sono
concepiti come strumento di negoziazione politica) può generare un gettito
elevato, vale il contrario nel caso di dazi elevati.
Questa tesi è criticabile per due
ordini di ragioni:
1) Non sembra esistere correlazione
fra diffusione del dollaro come valuta di riserva internazionale e
de-industrializzazione USA. Dal 1944 e nei successivi decenni la domanda di
dollari su scala internazionale è continuamente cresciuta, salvo far registrare
un significativo decremento nell’ultimo triennio (raggiungendo oggi il minimo
storico del 57.54%, a fronte di un aumento della domanda, in particolare, di
euro, soprattutto per effetto della dollarizzazione promossa dai BRICS). Il
deficit commerciale americano è aumentato del 60%, al netto dell’inflazione,
tra il 2000 e il 2022. Si badi che questo aumento si è registrato proprio a
partire dalle prime msiure protezionistiche, volute, in particolare,
dall’amministrazione Biden. Come è noto, a partire dalla fine della seconda
guerra mondiale, con gli accordi di Bretton Woods, il dollaro diventa la valuta
di riserva internazionale. Il problema nasce dal fatto che gli USA sperimentato
da tempo un problema di “doppio deficit” (pubblico e della bilancia dei pagamenti)
che, negli ultimi anni, ha generato un processo di de-dollarizzazione, connesso
al tentativo dei BRICS di utilizzare una valuta diversa dal dollaro. Se il
protezionismo serve a regolare l’offerta di dollari, allora quella
dell’amministrazione Trump – nelle circostanze attuali - ha come finalità
essenziale la difesa dell’egemonia monetaria, che, a sua volta, è difesa di
quello che il Presidente francesce Valéry Giscard d’Estaing ebbe a definire
l’”esorbitante privilegio”. L’esistenza, in Europa, di regolamenti (e, dunque,
di barriere non tariffarie), in particolare su salute e ambiente, viene
percepita dall’industria statunitense e da Trump come ostacoli alle
esportazioni USA, pur essendo valide erga omnes e non configurandosi, a rigore,
come strumenti di protezione. Miran ritiene anche che l’aumento dei dazi generi
incrementi del gettito fiscale: va da sé che questo effetto si produce solo se
la domanda statunitense di prodotti importati è molto rigida e, per
conseguenza, mentre un basso livello dei dazi (dunque, politicamente poco
rilevante, se i dazi sono concepiti come strumento di negoziazione politica)
può generare un gettito elevato, vale il contrario nel caso di dazi elevati. Si
ha, quindi, un trade-off fra rilevanza del protezionismo per il conseguimento
di finalità di contrattazione con Paesi terzi e sua importanza per contribuire
al risanamento delle finanze pubbliche.
2) La de-industrializzazione appare
semmai connessa alla finanziarizzazione, non all’apprezzamento del dollaro e
ha, dunque, ha che vedere con il modello di sviluppo che l’economia USA si è
data soprattutto negli ultimi decenni e, in particolare, con la deregolamentazione
dei mercati finanziari voluta da Clinton e alle delocalizzazioni (causate da
molti fattori oltre al tasso di cambio, fra i quali: più bassi salari
all’estero, tassazione più favorevole, minori vincoli ambientali). Si calcola
che l’incidenza della sfera finanziaria (quantificata dallo stock complessivo
delle attività finanziare esistenti sul mercato) sul Pil USA è in continuo
aumento dal 1950 a oggi. La finanziarizzazione dell’economia e delle imprese
frena la produzione industriale soprattutto perché crea incentivi ad allocare
capitale monetario in attività più redditizie con utili conseguibili in tempi
più rapidi.
Letto in quest’ottica, la vera
novità del protezionismo USA consiste nel fatto che– probabilmente per la prima
volta nella Storia del capitalismo – le politiche di protezione delle industrie
nascenti (teorizzate e messe in atto nella Germania della prima rivoluzione
industriale, in particolare da F. List, alla metà dell’Ottocento e poi dai
Paesi in via di sviluppo nel secolo scorso) – sono realizzate nella prima
economia al mondo. Trump sta accelerando il processo, ma questo era in fieri da
decenni, perché è da tempo che gli USA sperimentano il paradosso di voler,
simultaneamente vivere al di sopra delle loro possibilità (creando, dunque,
elevati e crescenti debiti privati e pubblici) e salvaguardare l’equilibrio
della loro bilancia commerciale.

Nessun commento:
Posta un commento