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Festìna lente ("Affrettati lentamente") - Svetonio

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giovedì 12 settembre 2024

La de-dollarizzazione e la guerra in Ucraina: una nota Guglielmo Forges Davanzati

Con la massima schematizzazione, e senza pretese di esaustività, è possibile individuare due linee interpretative sulle cause della guerra in Ucraina. In quanto segue, queste interpretazioni vengono descritte e commentate senza alcuna pretesa di originalità, ponendosi, in questa sede, il solo obiettivo di orientare il lettore del blog nell’ampio dibattito sul tema e di segnalare alcune recenti pubblicazioni per eventuali approfondimenti[1]

La prima tesi, di gran lunga dominante in Occidente e, dunque, in Italia, fa riferimento alla convinzione, come è noto, che la guerra in Ucraina sia l’esito dell’aggressione militare della Russia e che debba essere contrastata per due ragioni: perché lesiva del diritto internazionale e perché potenzialmente distruttiva di quelli che vengono definiti i “valori occidentali”. Questi ultimi sono identificati, di norma, nella democrazia, nella libertà individuale, nella difesa della proprietà privata: in altri termini, l’ordine liberale.

In Italia, questa posizione è ben riassunta da Vittorio Emanuele Parsi (si veda, in particolare, “Il posto della guerra e il costo della libertà”, Bompiani, 2022). Come sempre accade quando si invocano valori etici per legittimare conflitti armati, si ritiene – in questo approccio – che la rilevanza morale dell’obiettivo da conseguire giustifichi costi anche elevati per la gran parte della popolazione.

In effetti, a ben vedere, questi costi non sono uniformemente distribuiti fra gruppi sociali. I percettori di redditi fissi e bassi pagano la guerra in misura maggiore per le seguenti ragioni:

a)     La riduzione dell’offerta di gas, derivante dalle contro-misure russe alle sanzioni occidentali e principale responsabile dell’aumento del tasso di inflazione nel biennio 2022-2024, ha penalizzato soprattutto le famiglie povere, a causa della maggiore incidenza delle spese per l’accesso a servizi pubblici essenziali (ci si riferisce all’aumento dei costi energetici) e per l’acquisto di beni alimentari in rapporto al loro reddito monetario.

b)     L’aumento dei tassi di interesse delle Banche centrali (finalizzato a contrastare l’inflazione) ha anch’esso penalizzato soprattutto gli individui con redditi più bassi – o residenti nelle aree più povere del Paese, nel caso italiano - per l’aumento del costo dei mutui.  

c)     I percettori di redditi bassi e fissi pagano maggiormente l’aumento delle spese militari (da portare al 2% del Pil), dal momento che, in combinazione con la revisione del Patto di Stabilità e Crescita nell’UME e dunque con l’avvio di una nuova fase di austerità, esso implica minore spesa pubblica soprattutto per i servizi di Welfare (istruzione, sanità, trasporti, pensioni)[2].  

Una seconda posizione, minoritaria, collega i conflitti armati – quello in Ucraina, in particolare – all’obiettivo statunitense di preservare la propria egemonia attraverso l’uso del dollaro come moneta di riserva internazionale. La letteratura accademica sul tema è relativamente scarsa. Si segnalano, in particolare, due libri di taglio storico-teorico: Rosario Patalano (La moneta del mondo, Rubettino, 2013), sui progetti di riforma del sistema monetario; Saleha Moshin (Paper soldiers. How the weaponization of the dollar changed the world order, Penguin, 2024) sui processi in atto di de-dollarizzazione, da parte, in particolare, dei c.d. BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa)[3].

Sul piano tecnico, viene argomentato che disporre della valuta di riserva e mezzo di scambio internazionale significa, per usare l’espressione di Giscard d’Estaing, godere di un “esorbitante privilegio”. Per comprendere la natura di questo privilegio, occorre partire da alcuni assunti acquisiti dalla teoria economica moderna (si veda A. Graziani, The monetary theory of production, Cambridge University Press, 2003), ovvero: (i) la moneta è una pura convenzione sociale; (ii) la produzione di moneta-credito da parte del sistema bancario nel suo complesso non incontra vincoli di scarsità e (iii) è la domanda di moneta espressa da imprese ed eventualmente dai lavoratori a determinare la quantità di circolante. La prima premessa è fondamentale per motivare la principale conseguenza del privilegio della detenzione della moneta di riserva mondiale, ovvero l’impossibilità del fallimento dello Stato che la emette. Più in dettaglio, il fallimento (inteso nella specifica accezione di non disporre di risorse sufficienti per garantire il finanziamento del settore pubblico mediante l’emissione di titoli del debito pubblico), nel caso degli USA, può essere esclusivamente auto-indotto e, anche per questa ragione, se non impossibile, costituisce un evento inverosimile. Infatti, l’emissione di nuovo debito viene decisa, in totale autonomia e discrezionalità, dal Congresso, e accade talvolta che ciò che i media rappresentano come rischio di fallimento dello Stato americano non è altro che il riflesso del conflitto che si verifica periodicamente, soprattutto nelle fasi recessive, fra democratici e repubblicani in merito all’espansione della spesa pubblica. Nei fatti, dal 1960 ad oggi il Congresso ha aumentato il limite ben 80 volte e il default non è mai avvenuto.

Le premesse (ii) e (iii) spiegano per quale ragione gli USA – a differenza di tutti gli altri Paesi al mondo - non possono fallire: i titoli di Stato americani, infatti, sono per i mercati finanziari attivi sicuri (safe asset, nel gergo ovviamente anglosassone della finanza internazionale). Questi titoli sono domandati per la gran parte delle transazioni su scala internazionale (petrolio in primis) e fanno da àncora per il valore dei titoli sovrani degli altri Stati e dei titoli azionari e obbligazionari scambiati nella quasi totalità delle borse mondiali.

A ciò occorre aggiungere il dato per il quale il c.d. American way of life è largamente caratterizzato da elevata propensione al consumo e, in alcune fasi, da sovra-consumo (reso possibile dall’indebitamento privato) e che livelli elevati e persistenti di sovra-consumo – si direbbe, il vivere al di sopra delle proprie possibilità - possono essere finanziati solo a condizione di disporre della moneta del mondo. Nella Storia recente degli USA, a partire dall’amministrazione Reagan, ciò si è tradotto nel twin deficit (deficit pubblico e del saldo della bilancia commerciale), connesso con l’indebitamento con l’estero e con sé stessi.

La fig.1 mostra che il saldo della bilancia commerciale statunitense (la differenza fra esportazioni e importazioni) è sistematicamente in disavanzo dall’inizio degli anni Settanta, facendo rilevare come i (sovra)consumi degli americani sono, in ultima analisi, garantiti da un eccesso di importazioni che nessun Paese, privo del privilegio della moneta mondiale, potrebbe sostenere con questa intensità e con questa lunghezza temporale.





Fig.1: saldo commerciale USA : 1895-2015

 

Secondo questa lettura, dunque, la guerra risponde (anche o prevalentemente) all’obiettivo di preservare il privilegio della moneta mondiale, in una fase nella quale il suo dominio è messo in discussione dal tentativo dei BRICS di far aumentare il numero di transazioni internazionali effettuate in valute diverse dal dollaro. Risulta interessante osservare che la stessa potenza bellica USA dipende dai finanziamenti al settore militare, che sono tanto maggiori (o possono esserlo) quanto più il dollaro continua a svolgere il ruolo di moneta di riserva e di mezzo di scambio.

Letta in tal senso, la prima tesi – di ordine etico – appare come copertura ideologica dei rapporti di forza esistenti su scala globale e, dunque, della competizione fra valute. Il processo di de-dollarizzazione è in atto, ma è ben difficile prevederne gli sviluppi. Nel 2011, il dollaro costituiva il 73% del totale delle riserve detenute dalle Banca centrali; oggi questa quota si è ridotta al 60%. Parallelamente, dagli anni Cinquanta a oggi, il contributo degli USA al Pil globale si è dimezzato, attestandosi al 20% circa. La ricostruzione delle cause e dei possibili sviluppi di questi processi è fornita, secondo prospettive teoriche e politiche diverse, da Giulio Chinappi, L’esorbitante privilegio del dollaro e il suo lento declino, Marx 21, 4 maggio 2023 e da Paolo Guerrieri, L’esorbitante privilegio del dollaro è al capolinea?, Ytaly 24 febbraio 2024.

 


[1] Per una ricostruzione del dibattito, dal punto di osservazione della geopolitica, si rinvia al fascicolo monografico di Limes (Il mondo cambia l’Ucraina) del luglio 2024, con particolare riferimento alla prima parte sui costi della ricostruzione di quel Paese. L’ultimo fascicolo della Review of Keynesian Economics (Volume 12 (2024): Issue 3 (Aug 2024) è da segnalare per i pregevoli contributi sul tema economia e guerra.

[2] È stato osservato che il combinato dell’aumento delle spese militari e dell’allargamento a Est dell’UME potrebbe comportare una significativa riduzione dei fondi di coesione (il tema è rilevante soprattutto per il Mezzogiorno).. Sulla questione, si rinvia a  cf. T. Schwab,, Quo vadis. Cohesion policy? European regional development at a crossroards, Policy Paper, June 2024. Si segnala anche la ricerca di Ugo Marani in merito al sostanziale fallimento del progetto che voleva l’euro come valuta di riserva e di scambio internazionale (L’euro una valuta solo “regionale”, www.economiaepolitica.it, luglio 2023). 

[3] Lo studio pionieristico sul rapporto fra produzione della moneta di riserva internazionale e potere militarie e politico è quello di Marcello De Cecco (Moneta e impero. Economia e finanza internazionale dal 1890 al 1914, Donzelli, 2016, a cura di A. Gigliobianco).

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