Con
la massima schematizzazione, e senza pretese di esaustività, è possibile
individuare due linee interpretative sulle cause della guerra in Ucraina. In
quanto segue, queste interpretazioni vengono descritte e commentate senza
alcuna pretesa di originalità, ponendosi, in questa sede, il solo obiettivo di
orientare il lettore del blog nell’ampio dibattito sul tema e di segnalare alcune
recenti pubblicazioni per eventuali approfondimenti[1].
La
prima tesi, di gran lunga dominante in Occidente e, dunque, in Italia, fa
riferimento alla convinzione, come è noto, che la guerra in Ucraina sia l’esito
dell’aggressione militare della Russia e che debba essere contrastata per due
ragioni: perché lesiva del diritto internazionale e perché potenzialmente
distruttiva di quelli che vengono definiti i “valori occidentali”. Questi
ultimi sono identificati, di norma, nella democrazia, nella libertà
individuale, nella difesa della proprietà privata: in altri termini, l’ordine liberale.
In
Italia, questa posizione è ben riassunta da Vittorio Emanuele Parsi (si veda,
in particolare, “Il posto della guerra e il costo della libertà”, Bompiani,
2022). Come sempre accade quando si invocano valori etici per legittimare
conflitti armati, si ritiene – in questo approccio – che la rilevanza morale
dell’obiettivo da conseguire giustifichi costi anche elevati per la gran parte
della popolazione.
In
effetti, a ben vedere, questi costi non sono uniformemente distribuiti fra
gruppi sociali. I percettori di redditi fissi e bassi pagano la guerra in misura
maggiore per le seguenti ragioni:
a)
La
riduzione dell’offerta di gas, derivante dalle contro-misure russe alle
sanzioni occidentali e principale responsabile dell’aumento del tasso di
inflazione nel biennio 2022-2024, ha penalizzato soprattutto le famiglie povere,
a causa della maggiore incidenza delle spese per l’accesso a servizi pubblici
essenziali (ci si riferisce all’aumento dei costi energetici) e per l’acquisto
di beni alimentari in rapporto al loro reddito monetario.
b)
L’aumento
dei tassi di interesse delle Banche centrali (finalizzato a contrastare
l’inflazione) ha anch’esso penalizzato soprattutto gli individui con redditi
più bassi – o residenti nelle aree più povere del Paese, nel caso italiano -
per l’aumento del costo dei mutui.
c)
I
percettori di redditi bassi e fissi pagano maggiormente l’aumento delle spese
militari (da portare al 2% del Pil), dal momento che, in combinazione con la
revisione del Patto di Stabilità e Crescita nell’UME e dunque con l’avvio di
una nuova fase di austerità, esso implica minore spesa pubblica soprattutto per
i servizi di Welfare (istruzione, sanità, trasporti, pensioni)[2].
Una seconda
posizione, minoritaria, collega i conflitti armati – quello in Ucraina, in
particolare – all’obiettivo statunitense di preservare la propria egemonia
attraverso l’uso del dollaro come moneta di riserva internazionale. La
letteratura accademica sul tema è relativamente scarsa. Si segnalano, in
particolare, due libri di taglio storico-teorico: Rosario Patalano (La moneta del mondo, Rubettino, 2013),
sui progetti di riforma del sistema monetario; Saleha Moshin (Paper soldiers. How the weaponization of the
dollar changed the world order, Penguin, 2024) sui processi in atto di
de-dollarizzazione, da parte, in particolare, dei c.d. BRICS (Brasile, Russia,
India, Cina, Sud Africa)[3].
Sul
piano tecnico, viene argomentato che disporre della valuta di riserva e mezzo
di scambio internazionale significa, per usare l’espressione di Giscard d’Estaing,
godere di un “esorbitante privilegio”. Per comprendere la natura di questo
privilegio, occorre partire da alcuni assunti acquisiti dalla teoria economica
moderna (si veda A. Graziani, The
monetary theory of production, Cambridge University Press, 2003), ovvero:
(i) la moneta è una pura convenzione sociale; (ii) la produzione di
moneta-credito da parte del sistema bancario nel suo complesso non incontra
vincoli di scarsità e (iii) è la domanda di moneta espressa da imprese ed
eventualmente dai lavoratori a determinare la quantità di circolante. La prima
premessa è fondamentale per motivare la principale conseguenza del privilegio
della detenzione della moneta di riserva mondiale, ovvero l’impossibilità del
fallimento dello Stato che la emette. Più in dettaglio, il fallimento (inteso
nella specifica accezione di non disporre di risorse sufficienti per garantire
il finanziamento del settore pubblico mediante l’emissione di titoli del debito
pubblico), nel caso degli USA, può essere esclusivamente auto-indotto e, anche
per questa ragione, se non impossibile, costituisce un evento inverosimile. Infatti,
l’emissione di nuovo debito viene
decisa, in totale autonomia e discrezionalità, dal Congresso, e accade talvolta
che ciò che i media rappresentano come rischio di fallimento dello Stato
americano non è altro che il riflesso del conflitto che si verifica
periodicamente, soprattutto nelle fasi recessive, fra democratici e
repubblicani in merito all’espansione della spesa pubblica. Nei fatti, dal 1960
ad oggi il Congresso ha aumentato il limite ben 80 volte e il default non è mai avvenuto.
Le premesse (ii) e (iii) spiegano per quale
ragione gli USA – a differenza di tutti gli altri Paesi al mondo - non possono
fallire: i titoli di Stato americani, infatti, sono per i mercati finanziari
attivi sicuri (safe asset, nel gergo ovviamente anglosassone della finanza
internazionale). Questi titoli sono domandati per la gran parte delle
transazioni su scala internazionale (petrolio in primis) e fanno da àncora per il valore dei titoli sovrani degli
altri Stati e dei titoli azionari e obbligazionari scambiati nella quasi
totalità delle borse mondiali.
A ciò occorre aggiungere il dato per il quale
il c.d. American way of life è
largamente caratterizzato da elevata propensione al consumo e, in alcune fasi,
da sovra-consumo (reso possibile dall’indebitamento privato) e che livelli elevati
e persistenti di sovra-consumo – si direbbe, il vivere al di sopra delle
proprie possibilità - possono essere finanziati solo a condizione di disporre
della moneta del mondo. Nella Storia recente degli USA, a partire
dall’amministrazione Reagan, ciò si è tradotto nel twin deficit (deficit pubblico e del saldo della bilancia
commerciale), connesso con l’indebitamento con l’estero e con sé stessi.
La fig.1 mostra che il saldo della bilancia commerciale statunitense (la differenza fra esportazioni e importazioni) è sistematicamente in disavanzo dall’inizio degli anni Settanta, facendo rilevare come i (sovra)consumi degli americani sono, in ultima analisi, garantiti da un eccesso di importazioni che nessun Paese, privo del privilegio della moneta mondiale, potrebbe sostenere con questa intensità e con questa lunghezza temporale.
Fig.1: saldo commerciale USA : 1895-2015
Secondo questa lettura, dunque, la guerra
risponde (anche o prevalentemente) all’obiettivo di preservare il privilegio
della moneta mondiale, in una fase nella quale il suo dominio è messo in
discussione dal tentativo dei BRICS di far aumentare il numero di transazioni
internazionali effettuate in valute diverse dal dollaro. Risulta interessante
osservare che la stessa potenza bellica USA dipende dai finanziamenti al
settore militare, che sono tanto maggiori (o possono esserlo) quanto più il
dollaro continua a svolgere il ruolo di moneta di riserva e di mezzo di
scambio.
Letta in tal senso, la prima tesi – di ordine
etico – appare come copertura ideologica dei rapporti di forza esistenti su
scala globale e, dunque, della competizione fra valute. Il processo di
de-dollarizzazione è in atto, ma è ben difficile prevederne gli sviluppi. Nel
2011, il dollaro costituiva il 73% del totale delle riserve detenute dalle
Banca centrali; oggi questa quota si è ridotta al 60%. Parallelamente, dagli
anni Cinquanta a oggi, il contributo degli USA al Pil globale si è dimezzato,
attestandosi al 20% circa. La ricostruzione delle cause e dei possibili
sviluppi di questi processi è fornita, secondo prospettive teoriche e politiche
diverse, da Giulio Chinappi, L’esorbitante
privilegio del dollaro e il suo lento declino, Marx 21, 4 maggio 2023 e da
Paolo Guerrieri, L’esorbitante privilegio
del dollaro è al capolinea?, Ytaly 24
febbraio 2024.
[1] Per una ricostruzione del dibattito, dal
punto di osservazione della geopolitica, si rinvia al fascicolo monografico di
Limes (Il mondo cambia l’Ucraina) del
luglio 2024, con particolare riferimento alla prima parte sui costi della ricostruzione
di quel Paese. L’ultimo fascicolo della Review
of Keynesian Economics (Volume 12 (2024): Issue 3
(Aug 2024) è da segnalare per i pregevoli contributi sul tema economia e
guerra.
[2] È stato osservato che il combinato
dell’aumento delle spese militari e dell’allargamento a Est dell’UME potrebbe
comportare una significativa riduzione dei fondi di coesione (il tema è
rilevante soprattutto per il Mezzogiorno).. Sulla questione, si rinvia a cf. T.
Schwab,, Quo vadis. Cohesion policy? European regional development at a
crossroards, Policy
Paper, June 2024. Si segnala
anche la ricerca di Ugo Marani in merito al sostanziale fallimento del progetto
che voleva l’euro come valuta di riserva e di scambio internazionale (L’euro una valuta solo “regionale”, www.economiaepolitica.it, luglio 2023).
[3] Lo studio pionieristico sul
rapporto fra produzione della moneta di riserva internazionale e potere
militarie e politico è quello di Marcello De Cecco (Moneta e impero. Economia e finanza internazionale dal 1890 al 1914,
Donzelli, 2016, a cura di A. Gigliobianco).
Nessun commento:
Posta un commento